COVID-19, CRONACHE DALLE RETROVIE: COMUNICAZIONE PUBBLICA E SALUTE

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Quando, dopo l’esplosione dell’epidemia, hanno richiesto medici volontari per far fronte alle esigenze degli ospedali, per un momento ho pensato di lanciarmi. Mi piaceva l’idea di tornare in prima linea, come da giovane medico in Africa, nella Protezione Civile, nel Soccorso Alpino… Per fortuna in me ha presto prevalso il buon senso: che uno psichiatra ultrasessantenne si offrisse per intubare ammalati era davvero troppo, anche per uno specialista in un campo che porta con sé qualche pregiudizio di bizzarria.

Così mi sono accomodato al posto che mi compete, nelle retrovie. E ho scoperto che era un ottimo punto di osservazione per riflettere con relativa calma su quanto stesse accadendo, una calma che i colleghi in prima linea probabilmente non potevano permettersi. Una prima osservazione è stata, in primo luogo, che non c’è stato, e non c’è solo il virus, in Italia. Che le persone continuano ad ammalarsi e a morire soprattutto per altre cause. Che le misure di confinamento personale sono anch’esse un fattore patogeno non da poco. Che fasce rilevanti della popolazione stavano soffrendo più di altre, e tra queste ci sono molti immigrati. E soprattutto che la comunicazione pubblica nel suo complesso non è stata, a mio parere, all’altezza della situazione.

Partiamo da qui. Se ne sono senz’altro viste di tutti i colori, Negli Stati Uniti un noto clinico, il Dottor Trump, pare aver suggerito un’innovativa terapia consistente nell’infusione endovenosa di disinfettanti (Alcol? Candeggina? Non è stato specificato); le ragioni per cui il collega non abbia applicato per primo a se stesso questa promettente strategia clinica non sono note. In Italia un politico decaduto, molto in voga fino all’estate scorsa, ha cambiato idea in modo frizzante, passando da esigere la chiusura totale del paese, alla sua totale riapertura, a una nuova chiusura e così via ogni qualche giorno. Ma qui siamo nel territorio del pittoresco.

Preoccupanti sono invece gli effetti che ha avuto la comunicazione pubblica nel nostro paese in queste settimane. Una pletora di esperti e di responsabili politici si sono accatastati gli uni sugli altri nei mezzi di comunicazione, lanciando ammonimenti e dichiarazioni in termini generalmente ansiogeni, spesso coniugati all’imperativo, che sono presto diventati luoghi comuni. Quante volte abbiamo sentito fino alla nausea strillare “Restate a casa!”, “C’è troppa gente in giro!”, “Non dovete abbassare la guardia!”? Prestiamo attenzione alla struttura sintattica di queste parole: è il modo con cui i genitori si rivolgono a figli vagamente irresponsabili.

Dall’inizio dell’epidemia noi cittadini italiani veniamo trattati come bambini poco responsabili.
Anche la comunicazione più tecnica sembra aver seguito una strategia coerente, mirata soprattutto a spaventare la popolazione per farla rimanere in casa, e nelle mie retrovie psichiatriche ne ho spesso testimoniato gli effetti: ansia, insonnia, timori poco giustificati. In questi mesi (e non l’avevo immaginato) uno dei modi più efficaci di fare lo psichiatra è stato documentarmi accuratamente su quanto si andava via via scoprendo su Covid-19 per offrire un’informazione equilibrata a chi si rivolge a me, in modo da rassicurare sulla situazione.

Voglio fare giusto qualche esempio, tra i tanti possibili, di comunicazione ansiogena. Il primo si riferisce alla dichiarazione molte volte ripetuta (anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, riportata da diversi mezzi di comunicazione, ad esempio Rainews, 2020), secondo cui “non è affatto dimostrato che si crei immunità contro il virus”; affermazione variamente interpretata dalle persone che ho incontrato come “ci si può ammalare più volte” e “non si potrà mai avere un vaccino, non ne usciremo mai”. In realtà che il virus determini qualche forma di immunità è largamente l’ipotesi più probabile, e sarebbe un’eccezione assoluta se questo non avvenisse; anche i primi lavori scientifici pubblicati sono su questa linea (Altmann et al., 2020, Lipsitch, 2020, Long et al, 2020, Thevarajan et al. 2020). Una comunicazione corretta e non ansiogena sarebbe stata “non è ancora dimostrato che si crei immunità contro il virus, ma è altamente probabile”.
Altro messaggio allarmante: “Non è affatto detto che la buona stagione e il caldo sconfiggano il virus”, a volte fino ad affermare che “Il coronavirus non soffre il caldo” (ho sentito anche questa da qualche esperto): anche qui non ci sono ancora prove, ma basta dare un’occhiata all’andamento blando dell’epidemia nei paesi del sud-est asiatico, tropicali e con contatti con la Cina molto maggiori dei nostri, per sospettare che il caldo ci darà una mano. Una comunicazione corretta avrebbe potuto essere “non è ancora dimostrato che il caldo ci aiuti, ma è assai probabile”.
Ancora, sentito da uno dei consulenti più in voga del momento: “Una seconda ondata di epidemia in autunno più che un‘ipotesi è una certezza”, corredata dalle opinioni di tante altre personalità su toni simili (“tre esperti si dicono certi della seconda ondata”, “un secondo picco sarà molto peggiore del primo” eccetera). In realtà è tutto da vedere. I colleghi in prima linea mi dicono che i nuovi casi che arrivano ancora in ospedale, molto diradati rispetto alle scorse settimane, sembrano presentare la malattia in forme meno aggressive, e forse il virus sta cominciando a ridurre la sua virulenza, come a volte avviene nella storia evoluzionistica di questi microrganismi. Inoltre, stanno migliorando sia le capacità diagnostiche che quelle terapeutiche: avendo compreso che un aspetto chiave della fisiopatologia sono i fenomeni tromboembolici, si sta imparando a curare la malattia con eparina e antiaggreganti piastrinici; sembrano anche promettenti i trattamenti con antinfiammatori e con immunoglobuline da donatori. Infine, l’organizzazione sanitaria sta migliorando e ci sono ora procedure gestionale efficaci. Una comunicazione corretta avrebbe potuto essere “è possibile che ci sia un secondo picco, anche se non è dimostrato, e con le misure opportune di distanziamento e quello che ora sappiamo sul virus dovremmo poterlo gestire bene”.
Potrei continuare a lungo. Perché queste comunicazioni così ansiogene e allarmistiche? Perché questi toni paternalistici come se noi cittadini fossimo bambini? Infantilizzare gli interlocutori non è in genere una buona strategia.

Noi che lavoriamo con i richiedenti asilo e i rifugiati, spesso costretti a vivere in condizioni infantilizzanti non appropriate a persone adulte, lo verifichiamo; essi sono spesso costretti a convivenze con compagni che non scelgono loro, a non decidere in modo autonomo cosa mangiare, a non poter portare alcolici nei luoghi di accoglienza, a chiedere il permesso per dormire fuori casa, e possono vedersi ridotta la “paghetta” settimanale se non si comportano bene: queste regole sono normalmente applicate ai bambini, agli adolescenti, non agli adulti. E osserviamo che questa situazione spesso invoglia a reazioni ribelli, da bambini, appunto. Noi che lavoriamo con loro sappiamo bene quanto sia importante trattare i beneficiari dei progetti di accoglienza in modo rispettoso, “adultizzante”, proprio perché vivono in condizioni non appropriate agli adulti, e una comunicazione paritaria aiuta la loro assunzione di responsabilità.
Proprio in questi giorni abbiamo potuto testimoniare come nei servizi di accoglienza ben organizzati, dove gli operatori hanno saputo creare relazioni accoglienti e basate sulla fiducia con gli assistiti, la risposta di questi ultimi al confinamento sia stata eccellente, rinforzando i vincoli comunitari, cooperando efficacemente.

La comunicazione pubblica (governanti, esperti) non è stata adultizzante, ma paternalistica, terrorizzante (come minacciare l’Uomo Nero ai bambini). E purtroppo sembra anche contagiarci: quando scambio queste opinioni con qualche amico, a volte mi sento rispondere “Marco, non sono tutti come te e me, ci sono anche tante persone non responsabili”; che è una considerazione svalutante e forse a sua volta infantile, come i bambini che si lamentano di essere messi in castigo per colpa dei fratelli o dei compagni di scuola che si sono comportati male.
Io non credo che siamo poco responsabili. Tra i nostri connazionali ci sono gli operatori sanitari in prima linea (e anche noi delle retrovie…), le cassiere dei supermercati, gli insegnanti che s’ingegnano di mantenere i contatti con gli allievi in una situazione imprevista, gli autisti degli autobus e della logistica, le persone che lavorano nella nettezza urbana e che mantengono la mia città pulita e in ordine, e tanti altri. Tutte persone ammirevolmente responsabili, che fanno con scrupolo la loro parte tra mille difficoltà. Sono i tanti italiani che in questi giorni difficili hanno raddoppiato il loro impegno nelle organizzazioni di volontariato per aiutare le tante persone in difficoltà. Non tutti saranno stati all’altezza della situazione, su sessanta milioni di abitanti, e certamente gli irresponsabili non mancheranno. Ma la grande maggioranza di noi cittadini ha dato prova al tempo stesso di disciplina, abnegazione, umanità. Io ne sono orgoglioso. Meritiamo di essere trattati con fiducia, da adulti.

Se qualcuno ci chiedesse chi si è comportato da adulto responsabile, dovendo scegliere tra questi milioni di cittadini da una parte, e dall’altra i governanti che in alcune zone del paese sembra abbiano mandato ammalati di Covid-19 nelle residenze per anziani, non avremmo molti dubbi, immagino. Tuttavia coloro che in certi frangenti e in determinati contesti hanno gestito male l’epidemia sono tra chi strilla minaccioso contro di noi.
Penso che sia il caso di dire che il re è nudo, e che le persone responsabili, invece, sono i milioni di cittadini che fanno ogni giorno la loro parte, e meritano di essere trattati con rispetto. Non siamo peggio dei cittadini svedesi: è il modo con cui ci lasciamo trattare che è diverso. Voglio riportare le parole di Alessandro Barbano (2020) su un quotidiano in questo periodo: la scelta di gestire la situazione in questo modo “si fonda sulla convinzione che gli italiani siano un popolo anarchico e disubbidiente alle regole. Si tratta di un pregiudizio vecchio e illiberale, e come tutti i pregiudizi privo di fondamento, ancorché radicato nel senso comune. A crederci è soprattutto una parte della classe dirigente, abituata a vivere nel privilegio e quindi a proiettarlo, erroneamente, nei comportamenti collettivi”. Non si potrebbe dire meglio, e in questi mesi ne abbiamo avuto prove continue. Barbano conclude con queste parole: “contro il rischio permanente di un contagio non abbiamo altro mezzo che questa virtù laica e liberale: la fiducia. Fiducia o autoritarismo, fiducia o centralismo, fiducia o moralismo intransigente, fiducia o depressione”.

Quanta fiducia vediamo nelle chiacchiere con cui ad esempio è stato minacciato di tenere confinati gli ultrasessantenni a tempo indeterminato, seminando ulteriori angosce in fasce già provate della popolazione? I numerosi esperti dei popolosi comitati (loro li chiamano taskforce, perché amano fare gli americani, come Alberto Sordi in un celebre film della mia infanzia) non potrebbero dibattere tra di loro e lasciarci al riparo da questi allarmi? Fortunatamente noi italiani siamo anche capaci di coglierne immediatamente gli aspetti comici, sia all’idea di segregare gli anziani, sia nella successiva questione della definizione di “congiunti” che ci sarebbe permesso incontrare nella Fase 2, diventati in un primo tempo affetti stabili, e poi normati rigorosamente come cugini fino al 6° grado, ma assolutamente escludendo gli amici. Personalmente mi immagino i numerosi esperti riuniti in conclave a dibattere sul grado di cuginanza (di sangue o affine) permessa: fino al 4°? O al 5°? Facciamo il 6° e non se ne parli più, siamo signori!
Pur comprendendo la difficoltà di governare il paese in questi momenti, mi pare inevitabile trovare, al confronto, seri e affidabili i miei concittadini comuni.

Al di là della comicità di alcune comunicazioni pubbliche, quello che conta è il pensiero che le sottende: l’idea che tutto debba essere normato fino nei dettagli perché non ci si può fidare di noi.
Se tuttavia facciamo queste considerazioni non è per questioni di principio, ma perché hanno ricadute sulla salute, che qui nelle retrovie vediamo bene, a cominciare dai nostri pazienti che si sono visti annullare esami diagnostici, visite in ambulatori specialistici eccetera: l’impatto su chi soffre di patologie croniche è stato intenso (Mehrotra et al., 2020).
Ma la questione è ancora più seria: il Centro Cardiologico Monzino (2020) di Milano ha comunicato che durante il confinamento la mortalità per infarto si è triplicata, e contemporaneamente si sono ridotte del 40% le procedure di cardiologia interventistica, perché i pazienti spaventati dal pericolo del virus chiamano i soccorsi in ritardo. Osservazioni analoghe sono riportate in un’intervista al Prof. Indolfi, presidente della Società Italiana di Cardiologia (Franzellitti, 2020). Terrorizzare i cittadini porta anche a questo: a morti evitabili. Gli infarti sono più gravi del virus.
In oncologia sembra che siano successe cose analoghe. Colleghi mi riferiscono che, oltre ai ritardi accumulati a causa del fatto che molti ospedali hanno sospeso la normale attività, pazienti in lista per interventi oncologici urgenti li rimandano per timore di infettarsi in ospedale. Gli esiti nefasti di questi atteggiamenti non sono facilmente identificabili come in cardiologia, perché potranno essere verificati solo con il tempo. Comunque, anche il cancro è spesso più pericoloso del virus e l’allarme è ben presente sulla stampa scientifica internazionale (Van de Haar et al., 2020).
Noi cittadini abbiamo diritto a esigere di essere trattati da adulti, con rispetto, perché una comunicazione ansiogena provoca morti. Quello che si è già potuto misurare in cardiologia, che si sta cominciando a osservare in oncologia, è però vero per tanta altra medicina: non deve scomparire tutto davanti al virus.

Per quanto riguarda la psichiatria, poi, la questione è seria quanto trascurata. La salute mentale è parte della gestione delle emergenze sanitarie (The Lancet Psychiatry, 2020), e la comunicazione pubblica deve tenerne costo, senza inutili allarmismi (WHO Europe, 2020, Yao, Chen e Xu, 2020), perché il distanziamento sociale e l’isolamento sono fattori di rischio per la salute psichica, per i quali sono necessari specifici interventi (Beaney et al. 2020, Zhang et al., 2020). Un gruppo di 42 esperti internazionali ha pubblicato uno studio documentando il rischio di un consistente aumento di suicidi nella popolazione, segnalando come una delle cause principali sia la comunicazione pubblica irresponsabile (Gunnell et al., 2020, Garfin, Silver e Holman, 2020). Sulla stessa linea un articolo sugli Annals of Internal Medicine (Mannix et al. 2020) e uno su Jama Psychiatry (Reger et al., 2020) mettono in guardia da rischi analoghi. Tutti questi lavori invocano interventi urgenti per prevenire i suicidi.
Stanno apparendo le prime ricerche che dimostrano come la popolazione italiana stia già soffrendo molto per la situazione (De Girolamo et al., 2020, Rossi et al., 2020), con prevalenze particolarmente alte di disturbi d’ansia, sintomi da stress post-traumatico, depressione e insonnia: la mia esperienza quotidiana è del tutto sintonica. La minacciosa e irresponsabile comunicazione pubblica è pericolosa, trattarci da bambini non è solo offensivo: è pericoloso.

Come in ogni momento difficile, a pagare il prezzo più alto sono i deboli, coloro che si trovano in condizioni di fragilità sociale. I nostri immigrati sono tra questi. Essi non sono deboli per ragioni intrinseche alle loro persone: al contrario, sono in genere giovani, forti e sani. La loro difficoltà dipende dalla fragilità sociale e dalle leggi inadeguate che regolano la loro permanenza sul territorio italiano. Il bollettino dell’Istituto Superiore di Sanità (2020) del 28 aprile 2020 comunica che gli immigrati affetti da Covid-19 sono stati il 5,1% del totale, sottorappresentati dato che si stima la presenza di cittadini stranieri nel nostro paese tra l’8 e il 10% della popolazione: non sorprende trattandosi di persone in media più giovani e sane della popolazione italiana. Uno studio della Regione Toscana (Silvestri et al., 2020) riporta dati analoghi e evidenzia anche una letalità molto bassa. A parte due cinesi ricoverati a Roma all’inizio dell’epidemia, per nessuno è stato possibile accertare un’importazione dall’estero della malattia: si sono ammalati qui, come noi. La maggior parte dei contagi è avvenuta tra cittadini europei (sia UE che extra-UE) e latinoamericani.

Nonostante questa situazione rassicurante, l’attuale governo si è affrettato a dichiarare i porti italiani “non sicuri”, rifiutandoli agli sbarchi dei profughi: come se fosse più sicura la Libia, con le sue torture, gli stupri, gli omicidi che i porti siciliani. Alle navi umanitarie Alan Kurdi e Aita Mari, con profughi salvati in alto mare, è stato proibito a lungo l’approdo. Poi è stato permesso trasbordare le persone per una quarantena a bordo di una nave approntata alla bisogna, rivelando l’ipocrisia: se veramente il problema era proteggere i profughi, perché mantenerli in quelle condizioni difficili? La verità era che si è provato in ogni modo a non farli scendere a terra. Naturalmente, nessun caso di Covid-19 tra loro: gli untori non dovremmo essere noi lombardi? Che c’entrano gli africani? Negli stessi giorni, nel disinteresse delle autorità maltesi e italiane pur avvertite per tempo da Frontex, sono stati abbandonati in mare alla deriva per cinque giorni 12 ragazzi africani, poi annegati (Scavo, 2020a, 2020b).
Il politico decaduto cui si è accennato all’inizio, al culmine di un’estate pittoresca si è fatto fuori da sé, confermando i sospetti che qualcuno aveva sulla sua fragilità umana, oltre che politica, nascosta dietro all’arroganza. Il governo presunto progressista che l’ha sostituito, sostenuto da partiti sedicenti progressisti, si è premurato però di non lasciar decadere con quel politico anche le norme che egli aveva voluto: il decreto legge del 4 ottobre 2018, convertito in legge il successivo 1 dicembre, è pienamente in vigore ed è punitivo nei confronti degli immigrati. Cancellando il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie ha spinto decine di migliaia di persone nell’irregolarità. Oggi si stimano in circa 600.000 gli irregolari presenti sul territorio nazionale. Non sono criminali. Sono in gran parte persone oneste che chiedono solo di poter lavorare legalmente. L’epidemia si è abbattuta con violenza sulle loro vite. Vivono facendo lavori in nero, che sono diventati ancora più difficili a seguito dei controlli di sicurezza per il virus: per i caporali stipare i braccianti nei furgoni per portarli al lavoro si è fatto più scomodo, e così si è passati a organizzare mini-ghetti nelle campagne, dove sono ancora più umiliati e sfruttati (si veda, tra i molti altri articoli sul tema, Foschini, 2020).
Teoricamente, il rischio di avere una tale popolazione al di fuori di ogni controllo in fase di epidemia dovrebbe suggerire qualche provvedimento. Ma francamente il pericolo infettivo, benché serio, non mi sembra né l’unico né il primo motivo di preoccupazione. Si parla di una possibile sanatoria che consenta ai braccianti di lavorare in condizioni legali, perché la manodopera manca, nelle nostre campagne. Certamente, per il nostro paese è conveniente regolarizzare queste persone.
Ma è proprio necessario trovare il pretesto di una convenienza economica, per fare una buona legge? Io penso che contino anche le questioni di umanità. A volte sembra essere vergognoso parlarne, come se queste non siano degne di entrare nel dibattito politico. A mio parere è un segnale della subalternità culturale dell’attuale governo nei confronti del precedente.
Eppure io penso che un atteggiamento umanitario faccia parte della natura del nostro paese e di noi italiani. Per me che sono un medico è decisivo: non credo che si possa esercitare bene la professione senza un’attitudine amorevole per gli esseri umani. I miei amici medici (tra cui molti soci della SIMM) quest’attitudine ce l’hanno. Non penso che debbano vergognarsene: io personalmente li ammiro.

La paura del virus, ampliata ad arte dalla comunicazione pubblica, sembra rinforzare anche una malattia sociale: la timidezza nel farsi promotori di cause umanitarie. Ci sono leggi che vanno fatte perché sono giuste, perché corrispondono allo spirito, oltre che alla lettera, della nostra Costituzione. Possiamo parlarne anche se c’è il virus, non c’è ragione di dimenticarcene.
L’epidemia se ne andrà, forse prima di quanto ci aspettiamo. Rimarrà il dolore per coloro che non ci sono più, chi morto a causa del virus, chi a causa di altre patologie, non curate per la paura del virus. E rimarrà la crisi economica, con le sue conseguenze per la salute.
Ma una cosa c’era, c’è, e ci sarà nei decenni futuri, perché è strutturale alla società italiana: la questione dell’immigrazione. Siamo un popolo che fa pochi figli, e abbiamo un solo modo per sopravvivere: adottarne.
Ci sono già, in Italia, molte giovani donne e molti giovani uomini che chiedono solo di imparare la nostra lingua, mettersi al lavoro e aiutarci a portare l’Italia nel futuro. Di essere “adottati” da noi, cioè accolti e integrati. Il virus è stato usato per dimenticare anche questo, ma integrare gli immigrati è la chiave del futuro. Assumerci la nostra responsabilità di cittadini significa rimettere al centro della scena la società italiana tutta intera, con i suoi bisogni di salute fisica, mentale, demografica e democratica.
Non c’è solo il virus: abbiamo bisogno di diritti, lungimiranza e pensieri capaci di osare.

 

BIBLIOGRAFIA

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